
La fine della Seconda Guerra Mondiale, in Europa, coincise con il ritorno a una vita di pace solo per alcuni. Per gli ebrei sopravvissuti ai campi, l’incubo non si era ancora concluso. Come abbiamo spesso sottolineato, si tratta di una delle pagine della storia del dopoguerra più offuscata nel racconto pubblico della Shoah, oltre a essere la ragione principale che ha determinato la creazione del progetto “Riprendiamoci la memoria”.
La conclusione del conflitto, per la maggior parte degli ebrei sopravvissuti fu solo la fine dello sterminio “attivo”, dal momento che migliaia di persone continuarono a morire anche nei mesi e negli anni successivi, come conseguenza delle torture e delle privazioni degli anni di internamento. Per tale ragione, non divenne un punto fermo da cui poter ripartire, poiché la distruzione del popolo ebraico non fu solo fisica, fu anche culturale, linguistica, religiosa e simbolica.
La Shoah non aveva massacrato soltanto i corpi. Aveva spezzato le tradizioni, interrotto la trasmissione educativa e religiosa, dissolto comunità che non erano semplici aggregati di individui, ma mondi complessi. Yiddish, ebraico, pratiche religiose, modelli educativi, reti sociali: tutto venne demolito in modo sistematico.
Dopo il 1945, questo aspetto non venne considerato. La narrazione storica dominante si è concentrata sul crimine nazista, sulla macchina dello sterminio, sui campi di concentramento. Ma non ha mai fatto veramente i conti con ciò che seguì: con il fatto che intere generazioni si ritrovarono private, loro malgrado, di un patrimonio culturale che non poteva essere semplicemente “ripreso” dove era stato interrotto.
Nei Displaced Persons Camps, come abbiamo visto, i sopravvissuti si riorganizzarono.
Aprirono scuole, ripresero l’educazione religiosa, ristabilirono una vita comunitaria, provarono a recuperare una lingua e una memoria condivisa. Ma questo sforzo enorme è rimasto ai margini della memoria pubblica. Non è entrato nella storia della Shoah.
Si tratta di una continuità che, però, non dovrebbe stupire: lo stesso disinteresse verso il destino degli ebrei prima della Shoah — porte chiuse, rifiuti, rinvii — per quale motivo non avrebbe dovuto presentarsi anche dopo? Come abbiamo visto, l’antisemitismo non è stato solo un fenomeno nazista: Hitler ha solo cavalcato un pregiudizio ben radicato in Europa, da secoli e purtroppo ancora oggi. Ridurre la Shoah a un evento iniziato con le leggi di Norimberga e concluso con la caduta del nazismo, ha generato una memoria amputata che riconosce e commemora la vittima solo nel momento della sua distruzione attiva, ma la ignora come soggetto storico prima e dopo quel massacro.
Le generazioni successive alla Seconda Guerra Mondiale sono cresciute considerando la Shoah solo nella maniera in cui si è deciso di metterla sotto la luce, cioè attraverso la sequenza meccanica leggi razziali, persecuzioni, sterminio perpetuato dal regime nazista. Tutto ciò, però, ha finito per oscurare completamente le traversie degli ebrei durante il conflitto e nel dopoguerra e che sono fondamentali per comprendere il quadro nel suo insieme.
E forse è proprio per questa mancanza di “un pezzo della storia” che molti oggi faticano a comprendere perché per gli ebrei è stato necessario crearsi uno spazio, uno stato, in cui lingua, cultura, educazione e identità potessero essere vissute nella loro completezza, senza doversi nascondere o senza essere perseguitati a ogni cambio di secolo.
“Riprendiamoci la memoria” è un progetto nato per questo: illuminare tutte le ombre lanciate su una parte della Storia da quanti, evidentemente, non hanno avuto interesse a che fosse tramandata.






Add comment