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Dal lager alla prigionia inglese: le storie

Le vicende di Rose Lipszyc e Shmuel Katz mostrano come Cipro sia stata, per molti sopravvissuti alla Shoah, un nuovo incubo alla fine del precedente.

Rose Lipszyc e Shmuel Katz sono stati due sopravvissuti alla Shoah. Le loro storie sono state diverse, tuttavia sono stati legati da un’esperienza comune: l’illusione della libertà con la fine della persecuzione nazista, che ha coinciso con l’internamento nei campi britannici di Cipro. Per loro, come per molti altri ebrei scampati allo sterminio, Cipro non fu solo una semplice tappa a metà tra l’Europa e l’Yishuv, rappresentò un altro muro, un altro ostacolo apparentemente insormontabile. I campi di internamento di Cipro, infatti, non ebbero solo lo scopo di contenere fisicamente coloro che cercavano salvezza nel Mandato. Così come in molte altre occasioni che abbiamo descritto –  ad esempio la deportazione degli ebrei alle Mauritius -, anche in questo caso l’obiettivo britannico fu quello di scoraggiare in tutti i modi l’immigrazione clandestina ebraica, l’Aliyah Bet. 

Dopo essersi salvata grazie a documenti falsi e sotto le mentite spoglie di una bambina polacca, Rose Lipszyc intraprese un lungo cammino a piedi verso il Mediterraneo. Come migliaia di altri profughi ebrei, voleva emigrare nella Palestina mandataria, l’unico luogo che dopo lo sterminio occorso in Europa sembrava costituire speranza e sicurezza di sopravvivenza. Fu un viaggio carico di aspettative, pieno del bisogno di lasciarsi definitivamente alle spalle la guerra e gli anni vissuti nella paura.

A Venezia salì su una barca sovraffollata, fragile, inadatta a una traversata sicura. A bordo c’erano circa trecento persone, stipate una contro l’altra. Rose ricordò sempre quella sensazione fisica di compressione, di mancanza di spazio, come se anche il mare non fosse abbastanza grande per contenere la disperazione e l’attesa di quei sopravvissuti.

Quando le coste della Palestina apparvero all’orizzonte, la speranza di Rose fu bruscamente spezzata. Due navi da guerra britanniche intercettarono l’imbarcazione. I soldati inglesi salirono a bordo per arrestare i profughi. Per Rose fu uno shock totale. Lei stessa ha descritto quell’episodio così: “I soldati inglesi, ai quali avrei baciato i piedi per avermi liberata in Germania, saltavano sulla nostra piccola barca con i manganelli” con intenzioni tutt’altro che umanitarie, aggiungiamo noi.

Venne Trasferita a Cipro e fu rinchiusa in uno dei campi di detenzione allestiti dalle autorità britanniche. Tra il 1946 e il 1949, secondo una stima dello Yad Vashem, più di 52.000 ebrei provenienti da 39 navi vi furono imprigionati. Le condizioni non erano paragonabili ai campi nazisti, non c’era lo sterminio sistematico, né la fame deliberata. Tuttavia, insisteva il resto: il filo spinato, la guardia armata, la negazione della libertà, le baracche sovraffollate, le condizioni igieniche precarie e le malattie diffuse – tanto che più di quattrocento persone vi morirono. 

Per Rose, quei mesi rimasero impressi come un doloroso paradosso storico: la libertà riconquistata che si trasformava in un’altra prigionia. Solo nel 1948, all’indomani della fondazione dello stato di Israele, Rose vi si trasferì con il marito anche se, già nel 1952, scelse di emigrare in Canada.

Anche Shmuel Katz arrivò a Cipro dopo essersi miracolosamente salvato dalla distruzione dell’Europa ebraica. Nato a Vienna e cresciuto tra Austria e Ungheria, sopravvisse alla guerra grazie alla protezione offerta dalla “Glass House” di Budapest, dove il diplomatico Carl Lutz nascose molti ebrei per salvarli dallo sterminio. Nel dopoguerra, anche lui come molti giovani ebrei legati al movimento sionista, vide nella Palestina mandataria l’unica possibilità per una rinascita collettiva.

Nel 1946 riuscì a imbarcarsi sulla Knesset Israel. Il viaggio, carico di aspettative politiche e personali, si concluse però con l’intercettazione della nave da parte della marina britannica e il trasferimento forzato dei passeggeri in uno dei 12 campi di detenzione di Cipro. Qui si concentravano giovani, famiglie, altri militanti del movimento sionista come lui. Eppure anche qui, come nei DP camps europei, a un certo punto ci si ribellò all’inerzia e alla disperazione: si studiava, si discuteva, si rafforzava un’identità politica e culturale che avrebbe trovato espressione negli anni successivi la fondazione dello stato di Israele. L’internamento non riuscì a spezzare la determinazione di chi vedeva nella Palestina mandataria la possibilità di ricominciare.

Nel 1947 Katz ottenne finalmente un certificato di immigrazione e poté lasciare Cipro per trasferirsi, come membro dell’Hashomer Hatzair, al confine con il Libano. Visse per un po’ nel kibbutz Eilon, dopodiché nell’ottobre del 1948 fu uno dei fondatori del kibbutz Ga’aton, in Galilea, dove visse fino alla morte. Quell’esperienza a Cipro rimase parte integrante del suo percorso: una tappa obbligata tra la sopravvivenza e la costruzione di una nuova vita, segnata dall’impegno collettivo nel nascente Stato di Israele. Una tappa che, in quanto artista e illustratore, ha riversato anche nelle sue opere. 

Le vicende di Rose Lipszyc e Shmuel Katz mostrano come Cipro sia stata, per molti sopravvissuti alla Shoah, un nuovo incubo alla fine del precedente. Dietro il filo spinato dei campi britannici si concentrarono dolore, rabbia ma anche la speranza mai persa, in un’attesa forzata che segnò profondamente una generazione già provata dall’orrore. Quella dei campi di internamento di Cipro ritorna, quindi, come l’ennesima pagina della Storia scomoda ma essenziale per comprendere come la liberazione dei campi in Europa non abbia coinciso con una concreta salvezza.

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