C’era una volta la stampa che accusava Israele di essere troppo lento. Ora che Israele accelera, la stampa impazzisce.
Negli stessi giorni in cui l’IDF annuncia di voler completare in due mesi l’occupazione militare del 75% della Striscia, per “smantellare Hamas”, i titoli si moltiplicano in senso opposto, allarmati e confusi, come se qualcosa — o qualcuno — andasse salvato d’urgenza. Le voci cambiano direzione. Ma il bersaglio resta sempre Israele.
Sul Corriere della Sera, la notizia dell’avanzata militare viene presentata come un pericolo in sé: «Israele vuole il 75% di Gaza in due mesi», scrive G. Fas., dando spazio a una voce non meglio identificata secondo cui, una volta partito l’attacco, “Israele non si ritirerà nemmeno davanti a un accordo”.
La Stampa rincara: «Israele vuole il 75% di Gaza ma Trump frena l’invasione», con il consueto corredo di raid, cifre e accuse, questa volta affidate alla Croce Rossa, che denuncia «altri due nostri operatori uccisi».
Ma sono i dettagli a raccontare lo scarto. Mentre i media internazionali rilanciano un mix di “illazioni, retroscena e proiezioni”, l’unico fatto certo che emerge dalle stesse cronache è questo: i primi 2 aerei di contractor americani sono già arrivati a Gaza, incaricati di organizzare la nuova distribuzione umanitaria, fuori dal controllo di Hamas.
Un cambiamento radicale, strutturale. Che rischia di privare Hamas del suo asset strategico: il monopolio della fame.
La reazione dei media è disordinata e militante.
L’operazione “Carri di Gedeone”, al centro di questa fase finale, viene descritta come una nebulosa offensiva “in contrasto con le pressioni americane”, benché sia da settimane che le stesse testate accusavano Tel Aviv di “muoversi troppo lentamente”. Ora che l’offensiva procede, il frame si capovolge: la Casa Bianca avrebbe chiesto di fermarsi. Nessun documento, nessuna dichiarazione ufficiale. Solo un riflesso: fermate Israele.
In parallelo, la stampa raddoppia sul fronte emotivo.
Il 25 maggio è il giorno dei “nove fratellini uccisi a Gaza”, un caso rilanciato da tutte le principali testate, con descrizioni strazianti ma fonti direttamente riconducibili al ministero della Sanità di Hamas. «Alaa, la pediatra sotto le bombe», titola La Stampa. Repubblica parla di «la strage dei fratellini» e De Gregorio aggiunge: «Sono bombe che uccidono i bambini, li vanno a cercare».
I testimoni non ci sono, a parte un medico militante che “ha sentito dire”. Le foto sono vecchie di anni. Poi cambiano, e arrivano quelle più assurde realizzate in AI.
Neppure una riga sul fatto che IDF nega di aver condotto alcuna operazione del genere, né sul fatto che la zona di combattimento era segnalata è già evacuata. Sono stati colpiti quattro operativi in una zona che i civili avevano già lasciato.
L’impressione, insomma, è di trovarsi di nuovo davanti al bombardamento, sì, ma della propaganda di Hamas. Come per l’ospedale dei 500 morti che non ci sono mai stati, come per i 14mila bambini moribondi e condannati nelle prossime 48 ore, che non ci saranno mai, come ha ammesso persino chi ha lanciato la bufala.
La stampa che spaccia tutto ciò come fatti, che riempie le prime pagine ma si dimentica di smetire, chiederà mai scusa? No, perché c’’è un indizio più rivelatore del semplice entusiasmo narrativo: il mutato tono della guerra mediatica.
L’idea che Hamas fosse già sconfitto sembrava, fino a pochi giorni fa, implicita in molte analisi. Ora che quella sconfitta si avvicina davvero — sul campo e nella rete logistica — i toni cambiano. Il panico sale. La parola “genocidio” ricompare, le denunce si moltiplicano, il pathos si intensifica.
E quando i dati non bastano, arriva il sospetto.
La distribuzione degli aiuti avverrà tramite mappe tracciate dall’IDF e coordinate da operatori internazionali non legati ad Hamas? Allora è “un piano oscuro”, come suggerisce Repubblica: «Un ex agente CIA tra i contractor Usa del piano aiuti: addestrava i Contras in Nicaragua».
L’obiettivo reale, quello di impedire a Hamas di gestire risorse umanitarie e consenso territoriale, scompare. Conta solo l’associazione evocativa: CIA, Contras, segreti.
In questo schema, ogni cosa funziona come in un gioco di specchi.
Il lento Israele è colpevole. Il rapido Israele pure. Gli aiuti sono un dovere, ma se non li consegna Hamas, allora sono “strumentalizzati”. Gli ostaggi non esistono più, e se resistono, servono solo come prova del fallimento.
Non resta che una conclusione.
“Salvate Hamas” non è più un sospetto: è una campagna in corso.
Non sui campi, ma sulle pagine.
E ogni colpo di penna suona come un tentativo estremo di tenere in vita chi sul terreno sta perdendo.
La redazione di Free4Future






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