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La Birkin di Sinwar

Modestamente Birkin

Il crollo di un mito, caduto nelle mani di chiunque (col gentile contributo UNRWA)

Il crollo di un mito, caduto nelle mani di chiunque (col gentile contributo UNRWA)

Ci sono oggetti che comunicano imperitura eleganza, upper class, stato sociale elevato, ma forse non è più così.

C’era una volta l’alta moda, un gioco sottile di dettagli e concordanze, di elementi preziosi ricercati che giocavano al ribasso visivo. L’eleganza non si fa notare, si avverte.

Che questo modo di intendere la raffinatezza sia mutata in mano a quel genere di stilisti che, uno che un po’ ne capisce, tale Armani Giorgio da Piacenza, ha definito “furbacchioni” è sotto gli occhi (inorriditi) di tutti.

Negli annali della storia della moda, pochi oggetti hanno raggiunto lo status mitico della borsa Birkin di Hermès. Questa leggenda rilegata in pelle è diventata il simbolo per eccellenza di ricchezza, status e decisioni finanziarie discutibili.

Una storia nata in cielo

La nostra storia inizia come in una favola. C’era una volta negli anni Ottanta una leggiadra donzella di nobili natali, aspetto etereo e voce soave seppur appena percepibile. La giovane si trovava su un angusto aeromobile. Oh, la sventura! L’inadeguata sporta della giovine si capovolse rovesciando sull’orrido pavimento della cabina di prima classe tutto il suo nobile contenuto. A nulla valsero le dolorose parole della fanciulla, la quale lamentava che al mondo non fosse una borsa capace di contenere i suoi averi.

Ma come spesso accade nelle favole, fortuna volle che accanto a lei fosse seduto un potente mago, capace di porre rimedio all’odioso avvenimento.

Il nome della fanciulla era Jane, Birkin Jane e quello del mago, non era Tarzan, ma Jean-Louis Dumas, l’amministratore delegato di Hermès.

Ancora rapito da quella visione, Dumas tornò nel suo atelier, riunì i suoi migliori artigiani e disse: “Fatemi una borsa così esclusiva, così costosa, che la gente perderà letteralmente la testa per acquistarla”. Detto, fatto.

Era nata una borsa che non era solo un contenitore: era una dichiarazione. Un modo per dire: “Sì, ho più soldi che buon senso”.

Mentre Jane Birkin usava la borsa che porta il suo nome per trasportare oggetti, l’oggetto in sé si liberava della sua musa per vivere di vita propria.  Diventò lo status symbol per eccellenza.

Le liste d’attesa per la Birkin si allungarono ben presto più della fila per il bagno delle donne all’autogrill al rientro di agosto. Hermès, con un colpo di genio del marketing, rese le borse quasi impossibili da ottenere. Volete una Birkin? Dovete conoscere qualcuno che conosce qualcuno che è uscito con qualcuno che potrebbe avere un cugino che lavora da Hermès. E anche in questo caso, probabilmente vi ritroverete con un portachiavi. Brutto, persino.

Questa scarsità ha solo alimentato la frenesia. Improvvisamente, chiunque fosse qualcuno o presunto tale doveva avere una Birkin. Divenne l’equivalente fashion dell’anello di Gollum: prezioso, ambito e capace di trasformare individui altrimenti sani di mente in pazzi furiosi. My precious…

La democratizzazione del lusso (o la caduta dei potenti)

Nulla rimane immutato. L’esclusività della Birkin ha subito un duro colpo negli ultimi anni. Oggi è altrettanto probabile vederne una penzolare dal braccio di una star dei reality o di una influencer di dubbia ricchezza che al braccio di una vera e propria celebrità. La borsa Birkin, un tempo simbolo di lusso sobrio, è diventata tutt’altro.

Eppure, nonostante questo passaggio da esclusiva a eccessiva, il fascino  della Birkin persiste. È come se il mondo della moda avesse deciso collettivamente che il buon gusto fosse sopravvalutato e che il vero stile significasse portare al braccio l’equivalente del valore di un’utilitaria in pelle.

La donna che una volta cantava “Je t’aime… moi non plus” con Serge Gainsbourg probabilmente non avrebbe mai immaginato che il suo nome sarebbe stato associato a personaggi del calibro di Kim Kardashian e della sua gente o di gente legata al terrorismo, come la moglie di Sinwar. Si potrebbe pensare che una donna legata ad un “eroe”, un uomo che ha vissuto braccato per anni dovrebbe osservare la hayā’, la modestia: vestirsi in modo poco vistoso, seguire un codice di abbigliamento e comportamento che rispetti i principi della “modest fashion”, conciliando moda e precetti religiosi. Ora di certo non si può affermare che una Birkin sia vistosa, ma sicuramente è riconoscibile e non espressione di modestia. Forse quelle migliaia di euro potevano essere investiti nella causa e non nella modestia di Samar Abu Zemer.

Se il prezzo di partenza di questa sportina va dai settemila agli undicimila euro è pur vero che nessuno riesce otternerla per questo prezzo. E’ anche simile ad una pizza, ogni ingrediente aggiunto, o variazione fa lievitare (la pizza appunto) il prezzo finale fino a raggiungere il valore di un piccolo appartamento.

Chissà cosa penserebbe l’icona fashion degli anni Sessanta, che ha manifestato in favore dei diritti delle donne, che si è tagliata i capelli per solidarietà con le donne iraniane, nel vedere la borsa con il suo nome in certe mani.

La sua, la prima e originale Birkin di Jane Birkin, la mise all’asta qualche anno fa per raccogliere fondi per un’associazione che si occupava di AIDS.

In un mondo dove una Birkin può finire nelle mani di chiunque abbia abbastanza denaro e pochi scrupoli, forse non c’è più speranza per una rivoluzione del gusto. Magari un giorno, l’eleganza tornerà a essere quel “gioco sottile di dettagli” che non ha bisogno di urlare. Fino ad allora, continueremo a osservare questo circo, dove l’unica cosa più gonfia delle Birkin sono gli ego di chi le possiede. Oltre che i loro portafogli. E magari col gentile contributo di UNRWA.

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