Nel suo editoriale sul Fatto Quotidiano del 19 marzo, Raniero La Valle scrive che Israele avrebbe “banalizzato la parola genocidio”. È un’accusa pesante, che chiama in causa non solo un governo o una guerra, ma il modo in cui il mondo nomina l’orrore.
Ma la vera banalizzazione avviene altrove. Non quando si evita il termine per prudenza. Ma quando lo si lancia come accusa assoluta, senza fonti, senza verifica, senza responsabilità. Quando la parola “genocidio” viene usata non per descrivere un crimine documentato, ma per inquadrare moralmente chi lo compie — a prescindere dai fatti.
Nel testo di La Valle, la parola compare così: «Dopo aver angosciosamente protestato contro l’uso della parola “genocidio”, Netanyahu e i suoi hanno banalizzato questa parola sacra». Non viene citata alcuna definizione giuridica. Nessun dato. Nessuna comparazione. Solo la parola, usata come simbolo.
Ecco il problema.
“Genocidio” non è un sentimento. È una categoria precisa, definita dalla Convenzione ONU del 1948: implica l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non basta il numero dei morti. Non basta la sproporzione. Serve la prova dell’intenzione — ed è proprio lì che si misura la responsabilità.
Ma nei discorsi pubblici degli ultimi mesi — e in articoli come quello di La Valle — questo passaggio sparisce. Il termine “genocidio” viene usato per rafforzare una tesi, non per indagare una realtà. È una parola che serve a chiudere il discorso, non ad aprirlo.
Ed è qui che nasce la vera banalizzazione.
Perché quando tutto diventa genocidio, niente lo è più davvero. E quando il termine viene svuotato, a pagarne il prezzo non è solo la verità dei fatti. Sono anche le vittime vere, passate e presenti, di crimini che quella parola era nata per denunciare con precisione, non per evocare in automatico.
La Valle accusa Israele di aver reso normale il termine. Ma nel suo stesso articolo lo usa senza analisi, senza verifica, senza contraddittorio. Come se bastasse evocarlo per rendere una condanna universale.
Ecco perché su Free4Future torniamo su questo punto:
le parole contano. E alcune parole vanno trattate con cura.
Non per rispetto ideologico. Ma per rispetto verso i fatti, verso il diritto, verso chi ancora crede che il giornalismo debba spiegare prima di giudicare.
La redazione di Free4Future






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