Prima puntata di una serie in tre parti sul rapporto Dinah. Una lettura necessaria.
Il Dinah Project è nato in Israele dopo il 7 ottobre 2023. Non è un’iniziativa politica. Non è un documento emotivo. È un’indagine fondata su diritto internazionale, metodologia forense e analisi probatoria.
Le sue tre fondatrici — la professoressa Ruth Halperin-Kaddari, la giudice Nava Ben-Or e l’avvocata Sharon Zagagi-Pinhas — sono figure di riferimento globale nei campi dei diritti umani, del diritto penale e della violenza di genere.
Il rapporto prodotto dal Dinah Project è oggi la più ampia e completa ricostruzione della violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre e nei giorni successivi.
Smentisce in modo netto il frame mediatico delle “accuse israeliane”, e lo fa con centinaia di riscontri incrociati: testimonianze dirette e indirette, rapporti di soccorritori e obitori, prove visive e materiali, tracce forensi, dichiarazioni rese durante o subito dopo i fatti (res gestae).
Tra i casi documentati:
– donne stuprate in gruppo e poi uccise;
– corpi ritrovati nudi, legati, mutilati;
– genitali colpiti da proiettili;
– ostaggi donne e uomini sottoposti a nudità forzata, minacce sessuali, atti di umiliazione sistematica.
Una sopravvissuta del Nova Festival ha raccontato un tentato stupro. Almeno quindici ostaggi liberati hanno riferito abusi sessuali subiti o assistiti. Tra loro: Mia Schem, Agam Goldstein-Almog, Amit Soussana, Hagar Brodutch.
Nel corpo di Yarden Bibas — ostaggio maschio — sono documentati abusi sessuali e la rasatura delle parti intime, forma nota di CRSV (Conflict-Related Sexual Violence) per cancellare l’identità sessuale e disumanizzare la vittima.
Il 7 ottobre la violenza sessuale è stata usata come arma.
Il Dinah Project non chiede di “credere alle vittime”.
Chiede di guardare le prove.
Seconda puntata: la sorellanza selettiva e le complicità culturali.






Add comment