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Il Foglio – La geografia dell’indignazione: chi decide per quali bambini vale la pena piangere

Sofri non costruisce teorie; mette in fila fatti, li accosta, lascia che parlino mentre il suo articolo del 15 aprile è una mappa morale che mostra come abbiamo creato gerarchie nel dolore dei bambini.

Sofri non costruisce teorie; mette in fila fatti, li accosta, lascia che parlino mentre il suo articolo del 15 aprile è una mappa morale che mostra come abbiamo creato gerarchie nel dolore dei bambini.

I bambini palestinesi occupano il centro della scena, non perché soffrono di più, ma perché le loro immagini sono diventate emblemi, a volte strumenti; si è costruita attorno a loro una grammatica dell’indignazione dove sappiamo quando indignarci, quanto, con quali parole.

Gli ucraini scivolano ai margini poiché la guerra laggiù è una “seccatura protratta”; a Sumy una madre e sua figlia saltano da un autobus colpito e le reazioni sono “Non è successo”, “Se la sono cercata”, così l’indifferenza si fa cinismo.

Poi ci sono i bambini invisibili; nel campo di Zamzam, in Darfur, muoiono venti bambini in un giorno, cifre che non entrano nel circuito dell’informazione, numeri senza volti.

La gerarchia è chiara: esistono bambini che fanno notizia, altri che la saturano, altri ancora che restano sullo sfondo, non per mancanza di orrore, ma per mancanza di convenienza narrativa; il problema è la gestione dell’emozione; il pianto è diventato selettivo; a decidere chi merita attenzione non è la morte in sé, ma la funzione che quella morte assume nel racconto pubblico.

L’indignazione per un bambino ucraino si spegne in fretta; un bambino palestinese diventa parte di una narrazione più grande; i bambini africani sono solo numeri in rapporti che nessuno legge; l’informazione ha creato zone di luce e vaste aree d’ombra, ha stabilito quali morti meritano prime pagine e quali possono stare in trafiletti.

Sofri non accusa nessuno in particolare; espone fatti, mostra contraddizioni e la sua scrittura invita a guardare oltre le cornici precostituite; i bambini non hanno bandiere né ideologie; non hanno colpe nei conflitti che li uccidono; eppure muoiono diversamente nei nostri occhi, nelle nostre coscienze, nei nostri giornali.

La geografia dell’indignazione dice più su di noi che sulle guerre; rivela le nostre priorità, i nostri pregiudizi, la nostra capacità di sentire a intermittenza; perché alcuni bambini ci sembrano più degni di lacrime; perché certi dolori ci appaiono più accettabili; perché alcune morti diventano statistiche mentre altre diventano simboli.

Non ci sono risposte facili, solo domande scomode che Sofri pone senza alzare la voce, domande sospese nell’aria come un’accusa alla nostra indifferenza selettiva; la vera tragedia non è solo che i bambini muoiano nelle guerre, è che abbiamo imparato a piangerne solo alcuni.

“Si prega solo che i bambini non vengano uccisi, da nessun lato dei fronti”; Sofri lo scrive così, con semplicità; una frase quasi ingenua nella sua universalità; fuori tempo, in un’epoca che ha imparato a dosare le lacrime; abbiamo perso la capacità di piangere senza calcoli; di sentire dolore senza chiederci prima se quel dolore è politicamente corretto, se conferma i nostri pregiudizi.

I bambini muoiono ovunque; il nostro sguardo è selettivo; questa selezione racconta più di noi che di loro; Sofri lo sa; non predica; osserva; mette in fila i fatti; lascia che le contraddizioni emergano da sole; non alza la voce; non ha bisogno di farlo.

La Redazione di Free4future

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