Una frase di Trump, un effetto emotivo garantito, e nessuna verifica. Così l’Iran diventa la nuova Hiroshima, e Israele — ancora una volta — il responsabile implicito

Donald Trump dice: “Fordow come Hiroshima”.
Una frase assurda, sproporzionata, magari provocatoria. Eppure bastano tre parole per attivare il riflesso condizionato di gran parte della stampa italiana. Nessuno si ferma a chiedersi se sia vero, se abbia senso, se sia riferibile a ciò che è realmente accaduto. Il fatto che non ci sia stata alcuna esplosione nucleare, nessuna radiazione rilevata, nessun morto civile nei pressi dei siti iraniani, non ha alcun peso.
Quel che conta è il potere simbolico. E Hiroshima è una scorciatoia narrativa potentissima.
Evoca in automatico colpa, orrore, crimine assoluto. Chiunque venga paragonato a Hiroshima non può che essere una vittima. Chiunque venga associato agli autori di quell’evento — anche solo per analogia — non può che essere un carnefice.
Ed è proprio questo il passaggio chiave.
Il bersaglio non è l’Iran. È Israele.
Il raid contro i siti iraniani è stato condotto dagli Stati Uniti, ma con l’appoggio informativo e strategico di Israele. E i media lo sanno bene. Per questo accolgono la frase di Trump con entusiasmo camuffato da allarme. La fanno propria. La moltiplicano. E la trasformano in titoli che fanno tremare:
“I raid sull’Iran come Hiroshima” (Libero)
“Fordow distrutta come Nagasaki” (Il Giornale)
“Attacco nucleare mascherato” (QN)
Tutto falso. Ma tutto perfettamente efficace.
Il paragone con Hiroshima non informa. Condanna.
E qui sta il trucco: non si raccontano i fatti, si costruisce un’atmosfera. Un’eco morale. Una sensazione di orrore che deve depositarsi su chi — in questa guerra — viene costantemente spinto dalla parte sbagliata della storia: Israele.
Non importa cosa è successo davvero a Fordow.
L’AIEA non ha rilevato radiazioni. Gli impianti sono stati colpiti ma non vaporizzati. Nessuno ha riferito di bambini bruciati vivi, né di popolazioni sterminate. Ma il giornalismo militante non si occupa di verificare. Si occupa di evocare. E “Hiroshima” è il detonatore perfetto.
Così, in un colpo solo, si cancella la questione iraniana, si normalizza il programma nucleare degli ayatollah, si rimuove Hamas, e si converte l’Iran — teocrazia che impicca studenti in piazza — in vittima sacrificale dell’Occidente.
Il risultato?
Il solito schema binario:
Iran = resistenza eroica
Israele = potenza distruttiva
Gaza = Nagasaki
GHF = roulette russa
Non è un caso se nello stesso giorno, le stesse testate parlano di “stragi del pane”, “morti per la farina”, “bambini massacrati dagli aiuti”, e appunto, “Fordow come Hiroshima”. L’obiettivo è sempre lo stesso: trasformare ogni reazione militare in crimine, ogni difesa in aggressione, ogni alleato di Israele in mostro morale.
La stampa non ha preso sul serio Trump.
Lo ha usato. Ha sfruttato la sua iperbole per attivare una bomba semantica ben più potente di quella nucleare. Non c’è bisogno di ordigni, quando hai a disposizione una parola che fa tutto da sola. Hiroshima non ha bisogno di prove. Basta nominarla.
E così l’informazione si trasforma in operazione chirurgica: sposta il trauma, trasferisce la colpa, ricostruisce l’asse vittima-carnefice secondo convenienza. Senza rumore. Senza contraddittorio. E senza vergogna.






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