Free4Future
Smonta e spiega

Difendere Hamas. L’ultima trincea della stampa italiana

Hamas alla stretta finale nell’operazione “Carri di Gedeone”. Ma c’è qualcosa che non torna nella narrazione dei media.

Hamas alla stretta finale nell’operazione “Carri di Gedeone”. Ma c’è qualcosa che non torna nella narrazione dei media. Gli articoli del 18 maggio 2025.

C’è qualcosa che non torna. L’operazione “Carri di Gedeone”, lanciata dall’esercito israeliano per smantellare le ultime roccaforti di Hamas, viene raccontata da gran parte della stampa italiana come l’ennesima escalation brutale, priva di logica, di freni e di umanità. Le parole si moltiplicano: occupazione, pulizia etnica, deportazione, catastrofe umanitaria. Ma un elemento sistematicamente scompare: il nemico. Il soggetto della guerra. L’organizzazione terroristica che il 7 ottobre ha ucciso, violentato e rapito, che continua a detenere ostaggi, che rifiuta il disarmo, che controlla la popolazione e i tunnel, che spara razzi e trattiene gli aiuti.

Quando Israele prova a eliminare Hamas dal territorio da cui Hamas ha lanciato la guerra, i titoli si stringono, i toni si accendono, le redazioni si compattano. Contro Israele. Non contro la guerra.

Da Avvenire a Domani, da Repubblica al Manifesto, l’operazione viene raccontata come un tentativo di “occupazione definitiva” o di “deportazione di massa”, senza mai ammettere l’evidenza: per sradicare Hamas, Israele deve per forza controllare il terreno. L’alternativa – lasciarlo in piedi – significherebbe accettare che la guerra continui, che i rapiti non tornino, che Gaza resti in mano ai gruppi che l’hanno trasformata in un arsenale sotterraneo.

Eppure la stampa italiana non tollera l’idea che Israele possa vincere. Non è una valutazione militare: è una posizione ideologica. Lo si capisce dal linguaggio: ogni offensiva è “un massacro”, ogni pressione è “una catastrofe”, ogni volantino di evacuazione è “la soluzione finale”. Ma nessuna testata si chiede mai cosa accadrebbe se Hamas restasse lì, al potere. È un’ipotesi che semplicemente non si tocca.

Perché Hamas vivo a Gaza sembra essere l’ultima linea su cui molte testate italiane hanno deciso di giocarsi ogni residua credibilità? Perché Hamas non è più solo un attore politico e militare, ma un dispositivo narrativo. È il garante implicito di un racconto che divide il mondo in vittime e carnefici, oppressi e oppressori. Se Hamas viene rimosso, crolla la metafora. E con essa, vent’anni di titoli, rubriche, appelli, dossier, editoriali. Hamas non può perdere, perché Israele non può avere ragione. E se Israele non può avere ragione, allora la guerra non può finire.

C’è un silenzio assordante, in questi giorni, su quale sarebbe l’alternativa. Lasciare Hamas dov’è? Trattare con chi ha fatto saltare ogni accordo? Consentire che una parte della Striscia resti controllata da milizie islamiste, per poi far finta di ricostruire mentre si prepara il prossimo attacco? Chi racconta l’invasione israeliana come una sciagura non dice mai cosa bisognerebbe fare per chiudere davvero questa guerra. L’unica cosa che si chiede è che Israele si fermi. Ma fermare chi ha subito l’attacco e non chi l’ha scatenato non è neutralità: è complicità mascherata da umanitarismo.

Schema narrativo o investimento?

La verità è che una parte del giornalismo italiano ha investito troppo nel paradigma del conflitto permanente, per potersi permettere una soluzione. La pace vera – con il disarmo di Hamas e il ritorno degli ostaggi – renderebbe inutile il loro schema narrativo. Per questo preferiscono che la guerra continui, purché Israele non la vinca.

In fondo, la vera “linea rossa” non è Gaza. È la narrazione. E Hamas, per quanto debole, crudele e isolato, è ancora il simbolo che la tiene in piedi. Difenderlo – tacitamente, indirettamente, editorialmente – è diventato l’ultimo riflesso condizionato di una stampa che ha scelto da che parte stare. E non è quella della verità.

E viene un sospetto, legittimo quanto scomodo. Da quando gli Stati Uniti hanno progressivamente tagliato i finanziamenti Usaid verso certe aree e progetti internazionali, è aumentato in parallelo l’attivismo “umanitario” del Qatar, lo Stato sponsor della Fratellanza Musulmana, e quindi di Hamas. I suoi flussi finanziari sono rintracciabili nei bilanci di università americane, think tank e campagne mediatiche che operano sotto l’etichetta dell’antisionismo. È una rete nota nei dossier diplomatici, ma ancora poco discussa nello spazio pubblico.

Non sarebbe un’ipotesi folle, per un’intelligence o una magistratura, chiedersi se anche la grande stampa occidentale, almeno in parte, si sia trovata a galleggiare – consapevolmente o no – in questi bacini d’influenza. L’umanitarismo senza domande, la difesa automatica di Hamas, il rifiuto costante della verità quando riguarda Israele: forse non sono solo scelte editoriali. Forse, sono investimenti.

free4future

Add comment