Quando si parla di Gaza, spesso il giornalismo occidentale finisce per confondere chi spara missili con chi cerca di portare aiuto.
Davanti alla quotidiana tragedia di milioni di palestinesi, sembra che molti giornalisti abbiano deciso di sposare la narrazione proposta da Hamas, ignorando il lavoro concreto e coraggioso di organizzazioni come la GHF (Gaza Humanity Foundation), che ogni giorno garantisce pasti e assistenza medica alla popolazione.
Hamas ha da sempre usato una comunicazione fatta di vittimismo esasperato e di numeri talvolta esagerati per attirare attenzione. Un esempio lampante è la citazione tratta da Il Manifesto che titola in modo emotivamente carico: «Non c’è vergogna per lo sterminio» (Matteo Nucci, Manifesto). Questo genere di affermazioni viene riportato spesso come verità assoluta, senza un’adeguata contestualizzazione critica.
Nel frattempo, lontano dai riflettori, la GHF lavora quotidianamente in silenzio, affrontando rischi concreti e mettendo in gioco la vita dei propri operatori per fornire assistenza umanitaria ai civili. Eppure, questo impegno passa quasi inosservato, oscurato dai titoli sensazionalistici che preferiscono rilanciare comunicati e dichiarazioni di gruppi militanti. Repubblica, ad esempio, riporta con enfasi «Teheran festa in piazza: una vittoria, siamo pronti a negoziare» (Repubblica), senza sollevare dubbi o considerare con attenzione il contesto più ampio.
Questa tendenza della stampa a concentrarsi su Hamas invece che sull’impegno delle ONG come la GHF, riflette una scelta giornalistica preoccupante. La preferenza per narrazioni drammatiche e polarizzate, che spesso servono a incrementare clic e condivisioni, rischia di avere conseguenze serie: indirettamente, legittima la propaganda di gruppi che alimentano il ciclo della violenza e dell’oppressione.
È fondamentale che il giornalismo internazionale recuperi una distinzione netta fra chi costruisce e chi distrugge, fra chi porta aiuto e chi diffonde terrore. Mettere in luce l’impegno concreto di ONG come la GHF non rappresenta solo una scelta eticamente corretta, ma anche una responsabilità giornalistica nei confronti di chi, giorno dopo giorno, lotta per sopravvivere in una realtà di guerra e sofferenza.






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