Gabriella ha l’epilessia. Usa il Gabapentin Teva, 100 mg al giorno.
Alberto combatte un tumore cerebrale con la Temozolomide Teva.
Marta è in terapia per la depressione resistente, le hanno prescritto la Venlafaxina Teva.
Mario soffre di Parkinson: per lui, ogni compressa di Pramipexolo è un giorno in più di autonomia.
Claudia ha avuto un carcinoma tiroideo. Prende Levotiroxina Teva ogni mattina.
Tutti questi farmaci – efficaci, spesso generici, regolarmente distribuiti dal Servizio Sanitario Nazionale – sono prodotti da un’azienda israeliana: la Teva Pharmaceutical Industries. E da oggi, non saranno più disponibili nelle farmacie comunali di Sesto Fiorentino.
La delibera che fa male
Il Comune, guidato dal sindaco Lorenzo Falchi (eletto con Sinistra Italiana), ha approvato una delibera che dispone il boicottaggio di tutti i prodotti israeliani o a capitale israeliano nelle otto farmacie pubbliche della città. Non solo farmaci: anche parafarmaci, dispositivi medici, cosmetici. L’obiettivo, dichiarano, è aderire alle “campagne internazionali di pressione economica contro il governo di Israele”.
Ma la realtà è più semplice, e più grave: non si colpisce Israele. Si colpiscono i pazienti. Si colpisce il diritto alla cura.
Il danno concreto
Teva è il primo produttore mondiale di farmaci equivalenti e ha cinque stabilimenti in Italia, con oltre 1.500 dipendenti. Molti suoi farmaci sono in fascia A, cioè rimborsati dal SSN. Molti altri sono scelti da medici e pazienti proprio per la tollerabilità, la disponibilità o il prezzo. Sostituirli, in nome di un boicottaggio geopolitico, significa alterare terapie, creare confusione, aumentare i costi, mettere a rischio la salute.
La nota ufficiale della società partecipata Afs (che gestisce le farmacie) prova a rassicurare: “I farmaci prescritti in maniera specifica saranno comunque disponibili”. Ma in pratica, si crea un clima di incertezza, si esercita pressione implicita su medici e farmacisti, e si mette chi è malato di fronte a un interrogativo assurdo: la tua medicina è politica?
Il principio violato
Una farmacia pubblica non è una sede diplomatica. È un presidio sanitario. È lì per fornire ciò che serve a stare meglio, non per esprimere posizioni ideologiche.
Eppure, la giunta comunale ha scelto di usare questo spazio come tribuna geopolitica, rompendo il principio di neutralità del servizio pubblico.
Chi si ammala non può diventare strumento di propaganda. Chi entra in farmacia ha diritto a una sola cosa: la cura migliore, al momento giusto, al prezzo giusto.
Le parole non bastano
Il sindaco parla di “aggressione all’Iran”, di “sostituzione etnica”, di “affarismo trumpiano”. Eppure, è proprio questa delibera a trattare la salute come merce simbolica, da scambiare sul mercato del consenso.
Sarà pure una goccia nel mare, come dice lui. Ma è una goccia amara per chi ogni giorno convive con una malattia, e ora deve preoccuparsi anche di chi ha deciso di mettere un confine tra lui e il suo farmaco.
La salute non si boicotta
Ci sono limiti che non si valicano.
La cura non ha passaporto. Il dolore non ha bandiera.
E la salute pubblica non si manipola per fare propaganda.
Chi lo fa, gioca con la vita degli altri. E non ha scuse.






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