Quando la diplomazia è solo una coperta per la sconfitta
C’è un momento, nei conflitti internazionali, in cui l’imbarazzo diventa più eloquente delle parole. E l’Europa, in questi giorni, sembra perfettamente consapevole di non avere più niente da dire. La guerra ormai dichiarata tra Stati Uniti, Israele e Iran ha lasciato i leader europei muti o balbettanti. Non perché non ci siano opinioni, ma perché le opinioni non si possono più permettere.
Dietro le formule rituali sulla “de-escalation” e la “soluzione diplomatica” si nasconde la verità che nessuno osa ammettere: l’Iran era il vero puntello di una lunga strategia europea, mai dichiarata, ma coltivata in silenzio. Un equilibrio comodo, dove Israele faceva la parte del sorvegliato speciale e l’Europa trafficava in ambiguità, barattando relazioni, forniture energetiche e posizionamenti geopolitici con la promessa di non intervenire mai davvero.
Il Fatto Quotidiano descrive questa fase come “l’ambivalenza diplomatica di un’Europa che per anni ha preferito l’equilibrismo all’assunzione di responsabilità”.
Ora quell’equilibrio è crollato. E chi per anni ha invocato “parità di condanna”, “cessate il fuoco” e “peso proporzionale delle colpe” si ritrova nudo davanti a uno scenario dove la proporzione è saltata, e con essa tutta la retorica che la teneva in piedi.
Domani osserva che “la de-escalation è diventata una foglia di fico per coprire l’impotenza strategica di Bruxelles”.
Macron definisce un regime change in Iran “un errore storico” (Corriere della Sera), ma viene ignorato: “Qualsiasi tentativo di portare un cambio di regime con mezzi militari sarebbe un grave errore e porterebbe solo caos” (Corriere della Sera). Scholz tace. Von der Leyen si dissolve. Meloni, presente fisicamente al G7, è semanticamente assente: propone Roma come sede di negoziati, ma la sua voce non arriva nemmeno ai comunicati stampa.
Repubblica conferma che “Meloni cerca di mostrarsi attiva, ma è assente nei momenti chiave. La sua proposta non ha avuto seguito né spazio politico”.
L’Europa si attarda a correggere le virgole di una dichiarazione già firmata da altri. E quando il comunicato finale arriva, è Trump a dettare il tono: niente cessate il fuoco, nessuna ambiguità. Israele ha carta bianca: “Non voglio un cessate il fuoco ma molto di più: una vera fine del conflitto”, ha dichiarato Trump, aggiungendo che l’obiettivo è “una resa completa degli Ayatollah” (Corriere della Sera).
Come riporta Il Foglio: “Trump non ha concesso nulla. Ha firmato il documento finale solo dopo averlo piegato alla sua linea. L’Europa ha applaudito in silenzio”.
Una voce diversa
Solo un leader parla con una voce diversa: Friedrich Merz, capo della CDU. È l’unico ad assumersi la responsabilità politica di stare con Israele per vincere. Non per “equilibrare”, “limitare” o “gestire il conflitto”. Per vincere. Lo fa dicendo chiaramente che “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi” (Corriere della Sera), che l’Iran è la matrice di Hamas e Hezbollah, e che l’alternativa a Israele sarebbe un’escalation nucleare regionale. Non una parola sulle “due parti”. Non una smorfia diplomatica.
La Stampa evidenzia che “la linea di Merz è radicale, ma chiara: non c’è spazio per equidistanze, chi vuole stabilità deve stare con Israele”.
Il contrasto è devastante. Merz appare per quello che è: l’unico leader europeo che ha scelto una linea, anche dura, e la mantiene. Tutti gli altri si agitano tra freni a mano tirati, mediazioni posticce, e quella forma elevata di silenzio che prende il nome di “diplomazia”.
Ma non è diplomazia. È afasia. È il linguaggio di chi sa di aver perso, e cerca solo di guadagnare tempo mentre conta le macerie del proprio disegno geopolitico.
Come scrive Il Manifesto: “È la crisi della politica estera europea, prigioniera della sua irrilevanza e del desiderio di non scontentare nessuno”.
La redazione di Free4Future
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