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Ong, la faccia “pulita” del sistema Hamas

A Gaza non si muove niente senza Hamas. Non un sacco di farina, non una tanica di carburante, non un tubo dell’ossigeno, e nemmeno una macchina delle Nazioni Unite. Tutto, nel sistema umanitario che gravita attorno alla Striscia, è filtrato, approvato, mediato o impedito dal potere di Hamas. Le ONG non fanno eccezione

A Gaza non si muove niente senza Hamas. Non un sacco di farina, non una tanica di carburante, non un tubo dell’ossigeno, e nemmeno una macchina delle Nazioni Unite. Tutto, nel sistema umanitario che gravita attorno alla Striscia, è filtrato, approvato, mediato o impedito dal potere di Hamas. Le ONG non fanno eccezione. Anzi: ne sono il fulcro. Portano aiuti, ma soprattutto portano soldi. Alimentano la narrativa della crisi, ma soprattutto funzionano da cinghia di trasmissione emozionale tra Hamas e l’opinione pubblica occidentale.

Ogni giorno, con una perizia che sfiora il professionismo politico, le ONG locali e internazionali attive a Gaza mettono in scena, testimoniano, traducono, e infine trasmettono verso l’esterno l’unica narrazione oggi possibile della Striscia: quella in cui Hamas non c’è. In cui non esistono né miliziani, né arsenali, né tunnel, né scudi umani. Esiste solo un popolo in ginocchio, bombardato da Israele e dimenticato dall’umanità.

Il meccanismo perfetto

Il 19 maggio, su Repubblica, una giovane collaboratrice di Medici Senza Frontiere racconta la sua vita sotto le bombe a Gaza City. Una testimonianza drammatica, onesta, lacerante. Eppure, leggendo tra le righe, si nota un’assenza precisa: mai una volta viene citato Hamas. L’esercito israeliano è nominato sei volte. Hamas mai. Come se non esistesse.

Su Domani, l’effetto si fa sistema. Al valico di Rafah, gli operatori umanitari denunciano pubblicamente l’assedio: cartelli, oggetti respinti, giocattoli vietati, pane conteso. È il teatro della fame, e la colpa ha un solo nome: Israele. L’organizzazione responsabile della guerra non viene mai nominata. L’unico riferimento a Hamas è indiretto: “Se non si arriva a una tregua, mia sorella dovrà andarsene”, dice un operatore. Ma da chi dovrebbe arrivare questa tregua? Chi ha il potere di decidere, combattere, firmare, arrendersi? Il vuoto retorico parla da solo.

Su La Stampa, è la voce dell’Unione Europea a farsi carico della denuncia. Hadja Lahbib, commissaria alle crisi, si scaglia contro il piano israeliano di “privatizzazione” degli aiuti. Difende con forza “la neutralità delle ONG”, le descrive come custodi dell’umanità e del diritto internazionale. Anche lei non pronuncia mai la parola “Hamas”. Il nemico è uno solo, quello che blocca i tir. L’altro, quello che li controlla una volta entrati, non esiste nel racconto.

Quando l’assenza è il messaggio

Questa assenza sistematica non è una distrazione. È una strategia. Una delle più raffinate, e insieme più efficaci, della propaganda di Hamas: delegare la propria narrazione ad altri attori, più credibili, più accettabili, più “neutrali”. Far parlare le ONG, far piangere gli operatori, far indignare le commissarie europee, lasciando che il proprio marchio resti fuori campo. Ma dentro il frame.

Il risultato è una struttura narrativa perfettamente rovesciata: chi governa Gaza e ne ha fatto un arsenale sotterraneo scompare; chi la bombarda per distruggere quei tunnel compare ogni giorno sulle prime pagine. E le ONG, inserite e integrate nel sistema di Hamas, si trasformano in ripetitori empatici della sua agenda: umanizzare il conflitto, ma solo da un lato.

Il potere si chiama accesso

Perché lo fanno? Perché nessuna ONG può operare a Gaza senza il consenso di Hamas. Questo consenso è negoziato, ricattato, a volte pagato. In cambio, non si chiede solo silenzio. Si chiede un linguaggio. Quello della crisi senza colpevoli. Della sofferenza senza responsabilità. Della fame come destino, e non come strategia deliberata. In questo quadro, le ONG non sono più osservatori indipendenti, ma ingranaggi di una macchina comunicativa che ha bisogno di piangere senza spiegare, e di denunciare senza nominare.

Il risultato? È sotto gli occhi di tutti. Gaza viene raccontata ogni giorno. Ma mai per quello che è: un territorio governato da un’organizzazione terroristica che ha scelto la guerra e sequestra la sua stessa popolazione per alimentarla.

La prossima volta che leggeremo l’accorata testimonianza di una ONG di Gaza chiediamoci chi muove i fili di questa narrazione, con quali fini, quali obiettivi politici? E chi sta parlando davvero dietro la faccia “pulita” di queste organizzazioni?
Ma soprattutto chiediamoci come mai non se lo chiede il giornale che leggiamo.

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