Si può raccontare Gaza ignorando Hamas, il 7 ottobre, gli ostaggi, i razzi, i tunnel?
A quanto pare sì. È quanto accade su Avvenire nella rassegna stampa di oggi.
Tre articoli, tre registri diversi, un’unica narrazione: Israele è la causa del dolore, Gaza è il volto del dolore. Nulla su chi governa Gaza, su chi l’ha trascinata nel conflitto, su chi continua a sabotare ogni ipotesi di tregua. E così, la guerra smette di essere un fatto e diventa una cornice emotiva.
Nel pezzo di Anna Maria Brogi, il governo israeliano è descritto come “silurante”, impermeabile alla protesta e impegnato a “tirare dritto” tra bombe e repressione. Il quadro è netto: a Gaza si muore, a Tel Aviv si reprime. Nessun accenno agli attacchi missilistici in corso, né al fatto che tra i manifestanti israeliani c’è chi chiede più forza militare, non meno. La complessità viene accantonata in favore di una lettura morale.
Nel testo di Francesca Ghirardelli, si sottolinea l’impatto psicologico dei muri e dei checkpoint: “Barriere che segnano non solo i confini, ma la psiche”. È una prospettiva importante — se non fosse che omette il contesto in cui quelle barriere sono nate: anni di attentati suicidi contro autobus, caffè, mercati. Nella narrazione proposta, Israele costruisce muri per puro calcolo securitario, non per difendersi.
Il terzo articolo, firmato da Camille Eid, osserva con toni analitici le ambiguità dei Paesi del Golfo, ma non rinuncia alla consueta chiusura: “Israele bombarda, e intanto stringe accordi”. Una frase che suggerisce disumanizzazione e calcolo geopolitico. Il dolore di Gaza è reale — ma la realtà strategica viene semplificata in cinismo.
Tre articoli, e in nessuno si nomina Hamas. Né la sua ideologia, né le sue responsabilità, né la sua strategia deliberata di sacrificare i civili per guadagnare spazio mediatico. La guerra appare così come un monologo armato d’Israele, anziché come un conflitto tragico e asimmetrico, in cui una democrazia combatte un gruppo terroristico nascosto tra i civili.
Quando si racconta solo il dolore, ma non chi lo produce, non si fa informazione. Si costruisce una suggestione. E questa suggestione oggi si chiama disinformazione.
Raccontare Gaza è giusto. Ma farlo ignorando Hamas, il 7 ottobre, e la storia che ci ha portati fin qui, vuol dire raccontare solo la metà del conflitto. E, spesso, solo la metà che conforta le proprie convinzioni.
Chi vuole davvero la pace deve iniziare da qui: dalla realtà. Tutta.
La redazione di Free4Future






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